Aspetto che il sonno venga a me,
maudlin, maudlin. Litania di pillole e immobile veglia.
Arriverà il sonno e gli chiederò ancora tempo,
un’ultima veglia per salutare i fantasmi,
un ultimo respiro per ripetere il tuo nome.
Arriverà il sonno e il suo denso liquore,
buio di vita, parentesi di morte, arriverà
per quel poco che serve a riprendere il tempo,
i fantasmi, il suono del tuo nome.
La morte non è l’estrema slavezza: l’incoscienza
di esser vivi, la piroetta di un mondo che si osserva lontani
è la sorte di chi vive vicario, fantasmi e liquori,
respiri rubati alla morte quotidiana,
condanna e salvezza di restare vivi.

E il cielo va in grigio senza che il sole si muova.
Parole, lo sciardare incostante dei rami, carichi,
delle prime e ultime foglie di questa primavera.
E’ tra limpidi e immobili istanti di quiete che la vita
si ruba ai fasci di vento, e trapassa dal giovane verde
virgulto tardivo, sbarlucenza di vene che arrestano e scorrono
il flusso testardo, un segreto di clorofilla, allo scialbo impossibile,
quel crocchiare insensato di rami che primi abbracciarono il cielo.
E presto il tempo, il perdòno di un cieco, lascerà che nel grigio si perda
nel confuso sciamare, il segreto di vita di un albero in fiore,
le spoglie crisalidi del suo nudo inverno.
Oggi il tassista che mi ha portata a casa è rimasto molto colpito dalla foto di Man Ray che ho affisso sulla mia porta di casa.

"Ah," mi dice, "lei fa tatuaggi?"