dolci ore del mattino, presto, quando nessuno ancora
sa della tua presenza tra i vivi e resta immobile
con la sua porzione di morte quotidiana, aspettando il fiato,
il passo o l’errore che riveli la tua vigilanza solitaria,
piena di scoperte effimere e progetti irrealizzabili
che scompaiono al primo sbadiglio di chi ti sta accanto.
A cosa serve il dolore?
“A niente, a niente, non serve a niente. Basta, basta piangere.”
A cosa serve il dolore?
“Asciugati gli occhi e sorridi, su. Guarda quante cose belle che ci sono, fai una passeggiata, prendi un gelato.”
A cosa serve il dolore?
“Ma non c’è nessuna ragione perché tu stia così male. Non sei mica
storpia, hai tutto quello che ti serve, sei anche intelligente! È
un’esagerazione della tua età.”
A cosa serve il dolore?
“E poi vedi che così non riusciamo a far niente per aiutarti. Ti
chiudi, non parli, non mangi, dici che va tutto bene. E poi, bum!
Improvvisamente: stai male. E come facciamo noi ad aiutarti? Parla
almeno…”
Serve a stare meglio. L’abisso ci fa stare meglio, ci consola scendere
della notte che abbiamo in cuore e cullarci al pensiero che non ci sia
scampo. Senza finestre, nella prigione delle cose che non hanno nome,
respiriamo con il boccaglio, intorno il perfetto silenzio dell’assenza
del mondo.
Il dolore serve agli altri. Quando ne abbiamo vissuto tanto da uscire a
fatica dalle profondità della disperazione, a fatica, graffiandoci
braccia e gambe tra gli scogli e contro le onde che ci ributtano giù,
abbiamo un’arma contro il dolore, quello degli altri.
A cosa serve il mio dolore se non aiuta chi soffre? A cosa è servito il
mio viaggio nell’universo cieco della mia testa che non conosceva
speranza e conosolazione?
A te, voglio donare la mia sapienza, la mia esperienza, voglio dare a
te, amica mia che soffri, una voce che so potrai sentire dal tuo abisso.
La mia voce è forte, l’ho educata a passare ventimila leghe, a volare
controvento, a combattere contro le tempeste e ora la voglio donare a
te, la mia voce costruita dal dolore, una voce che sa parlare del
dolore.
Amica mia, quanto disattenta sono stata al tuo soffrire, sei passata
attraverso la mia vita che eri bambina e giocavi in silenzio, che
guardavi dritto negli occhi degli altri con le tue pupille nere e non
tradivi un suono, non lasciavi filtrare dalle tue palpebre una sola
indicazione. E io, che so, e io che dovrei saper vedere, e io che
riconosco il dolore non ho fatto niente.
Voglio essere la tua voce, voglio ascoltare il tuo silenzio e
riprenderti, per mano, sollevarti dall’abisso, se lo vorrai, se ti
fiderai di me, se vorrai ascoltare il mio vecchio dolore che conosce la
strada per riemergere e guardare le stelle.
Un istante prima del suicidio, siamo lucidi.
prestiamo attenzione al telecomando:
che non cada, si potrebbe rompere. Il groviglio
delle lenzuola intorno alle caviglie, lo sciogliamo
con mano sicura e carezzevole,
stendendo le pieghe, lisciando gli angoli.
Cerchiamo di non far rumore e di non lasciare tracce.
Prepariamo il mondo alla nostra assenza.
...
Nel salvare il file, compare la scritta "un file chiamato "suicidio" gia' e' presente nella directory. Sovrascrivere?"
Il primo, pallido sorriso compare sulle labbra. Patetici tentativi di essere vivi, questi di ammazzarsi.
Perso ormai,
non siamo riusciti a ricordarne niente,
nel silenzio della caduta del cielo,
la quiete degli insetti in piena notte
e la presenza dura del nostro corpo,
l’esistere nello stesso vano, serrato di pareti,
le mura scrostate, mappe di un disegno
che ripetiamo in litanie quotidiane.
Gli unici versi che conosciamo.
Un’improvvisa allegrezza,
immotivata, si libera dai chiodi,
attraversa tavoli e cuscini, un odore.
La presenza segreta di un’altra vita
aspetta quieta il passare dei nostri giorni,
si nasconde nella solitudine degli oggetti
e scricchiola sotto le travi del pavimento.
Fiorisce discreta nelle rughe del viso,
rigonfia il respiro senza ragione, ridona colore
e apre al sorriso, stupito. Se siamo fortunati
riusciamo a vederci un istante riflessi.
Sono insetti a sciami
i pensieri, con punte e zampe,
bave di vischio, cuore freddo.
Li allontaniamo dal volto,
lungo le vene delle braccia,
zampe e antenne,
estensione di parole smozzicate.
Arricciate tra la testa e la speranza
pure di sopravvivere ai nostri pensieri,
passiamo la vita assaliti da un esercito
armato della forza che ci toglie.
Pubblico con ritardo, per problemi tecnici, una frase che mi ha
accompagnata sempre nei miei pensieri sull'Illuminismo e forse ha
qualcosa a che fare con il blog di fulmini
(http://fulmini.ilcannocchiale.it)
"L'illuminismo e' l'uscita dell'uomo dallo stato di minorita' mentale che egli deve imputare a se stesso." Kant.
Non siate spiritosi per risultare simpatici, lo e' molto di piu' chi ride alle vostre battute.
Viva.
attraversare le distanze. Passi. Movimento e ombra e colore.
fare, intanto, tornare indietro. Guardare gli altri e aggiustarsi i capelli.
la pelle. acqua, vento, calore, umido e freddo. Mani.
prendere, togliere, tenere in mezzo al palmo, rigirare tra le dita. Posare.
Aspettare che finiscano di parlare. Conoscere il momento giusto.
Raccogliere le foglie, dissetarsi.
Questo stramaledetto cerchio che non tiene, confonde le linee di navigazione,
pieno di sogni e segreti conosciuti, di silenzi tutti uguali,
questa sfera ipocrita che dà spazio a ogni pensiero, offusca le idee più forti,
lascia che il piccolo e il grande camminino alti uguali
e che compone un catalogo disonesto del peso dei sospiri,
questa deforme palla che esiste senza dare spiegazioni, caos di promesse,
malnato mondo in cui non si deve chiedere il permesso di abitarlo
né si deve pagare pedaggio di esserne degni,
derisione divina per questa massa di corpuscoli
che lo abitano in nome di un valore che non esiste.
La decisione è una ed è scegliere tra trattenere la propria anima
morbida e resistere con il corpo ai dardi e i colpi di un’oltraggiosa
fortuna – perché è questo ciò che sei, questo ciò che sai fare – o se
adeguarti a leggere il tuo nome sulle insegne, le tue parole sui
cartoncini pubblicizzari spazzati dal vento. Perchè è nel deserto e nel
mare che si possono contare i passi, è nella notte e nella ferita – e
il suo vuoto nero – che il mondo si scioglie e da caotico manifesto
diventa scabra epigrafe.