Continuano le avventure del nostro professore ossessionato...
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Così si ripeteva mentre si preparava per andare a scuola. E allo stesso
tempo si concentrava il più possibile per non ripetere i suoi soliti
gesti: per non coprire la macchia sul centrino, per non pettinarsi i
baffi, per non toccare tre volte l’interruttore della luce. Si sentiva
felice e leggero perché era riuscito, senza un grande sforzo, ad
evitare tutte le trappole quotidiane. Uscì allegro, pronto a tutto.
Varcò la soglia del liceo dove insegnava da dodici anni fischiettando,
con un sorriso che gli sembrava far risplendere i muri, con tutte le
scritte geroglifiche e i disegni incomprensibili che le impiastravano.
Niente, oggi non erano importanti quelle scritte che tanto lo facevano
arrabbiare di solito. Svoltò per il lungo corridoio cadenzato da una
serie di porte a vetri sempre spalancate. Alla sua destra le aule già
rumoreggianti di svogliati, inutili ragazzi, alla sua sinistra le
finestre sporche contro il cielo grigio.
Respirò a fondo. “La primavera inizia. L’anno solare inizia… un nuovo
inizio!” Canticchiava sulle note di qualche canzone di cui non
ricordava il titolo. Si passò la mano sul ciuffo scuro di capelli e si
voltò sciantoso come un Jonny Depp che ammiri la sua ciurma
sgangherata. Il sorriso aperto e il passo cadenzato, con la
ventiquattr’ore che gli ondeggiava al fianco, l’occhio gli cadde su un
disegno osceno che apparve e scomparve al di là delle porte del bagno
delle ragazze. Tornò indietro e guardò meglio. Sembrava… sembrava un
organo genitale femminile… eppure, eppure… gli somigliava. Ecco, non
sapeva come meglio spiegare la cosa. La sua faccia sembrava un organo
genitale femminile.
Si avvicinò e sbirciò perplesso, col sorriso che gli moriva tra i
baffi. La scritta diceva: “Il professor Marconi ha la faccia da
patonza”. Patonza?
I suoi baffetti e le labbra erano state disegnate in modo da
rappresentare in immagini la metafora descritta a parole. Con la mano
libera scostò la porta del bagno e sporse la testa, fece un passo e
avvicinò il naso alle mattonelle, scrutò la scritta e mentre
riconosceva la grafia riconosceva anche il suo volto riflesso,
perfettamente iscritto nell’ovale della sua caricatura. Ebbe un moto di
ribbrezzo e saltò all’indietro sbattendo contro la maniglia del
lavandino. L’acqua schizzò violentemente e gli bagnò la manica e parte
dei pantaloni. Si raddrizzò lentamente cercando di riacquistare la sua
compostezza di sempre, quel silenzio interiore che aveva sempre quando
entrava a scuola e si diresse dal Preside.
Il Preside, un uomo basso con strisce di brillantina larghe come
autostrade tra i radi capelli brizzolati, con due baffi nerissimi
imponenti e spioventi come le sue sopracciglia, stava cacciando dal suo
ufficio il professore di matematica, un cinquantenne altissimo e
magrissimo, sempre con lo stesso vestito, che si tingeva i capelli di
rosso da solo e si vedeva perché poi gli rimanevano per giorni delle
strisce di colore lungo le orecchie. Il professor Debora, nome che gli
era costato per tutta la vita solo insulti stupidi, era
conosciuto nell’ambiente matematico per un suo articolo in cui, dopo
venticinque anni di lavoro, aveva messo una postilla a un’eccezione di
un teorema di Planck, postilla che poi si era rivelata di importanza
quasi nulla. Tuttavia era una postilla di tutto rispetto, ben scritta.
La sua attenzione ai dettagli era tale da renderlo un docente criptico
e inefficace, non riusciva mai a portare a termine le spiegazioni delle
cose più semplici perché gli sembravano sempre celare immense aree di
complessità. Qualsiasi testo gli sembrava così superficiale che anche
gli studenti meno dotati ricevevano da lui buoni voti: in fondo la
superficialità è superficialirtà, non ci sono gradazioni. Tanto valeva,
secondo lui, accontentarsi di poco o di quasi niente.
Mentre il professor Debora se ne usciva con le spalle curve e gli occhi
arrossati dall’ufficio del Preside, Marcello vi entrò con passo sicuro
e si piantò davanti alla sua scrivania. Riusciva quasi sempre ad
ottenere quello che voleva dal Preside perché gli incuteva timore.
“Preside, francamente il suo lassismo sta portando questa scuola allo sfacelo!”
“Professor Marconi, cosa è successo stavolta? Si sieda… prego.”
“Non ho tempo, devo andare in classe. Le dico solo che nel bagno delle ragazze è comparso l’ennesimo disegno osceno!”
Nel parlare del disegno se lo rivide davanti agli occhi e il suo stesso
sguardo gli parve osceno, trasparente e nudo. Il suo volto gli sembrò
essere quello del disegno e non più quello suo, quello che vedeva ogni
giorno allo specchio. Si vergognò e abbassò gli occhi.
“Eh, professore, che vuole che le dica? Lo sa anche lei che oggi i
ragazzi non hanno più freni inibitori. La religione, il sesso… la
famiglia… niente è più un tabù ormai… Ma il disegno… insomma. In questo
caso lo farò presto togliere e chiederò in giro per scoprire chi lo
abbia fatto, ne sia certo.”
“Non si preoccupi, lo so già chi è stato.” Disse Marcello e alzò lo
sguardo per un momento incrociando quello corrucciato di Giolitti il
cui ritratto troneggiava dietro alle spalle del Preside.
“Lo sa già? Allora siamo un passo avanti! Mi dica chi è e provvederò alla sospensione…”
“No, lasci stare, me la vedo io.”
“Come se la vede lei? Lo capisce, vero, che non è possibile? In questo caso ci sono delle regole e poi…”
“Il disegno mi riguarda e voglio essere io a vedermela con l’autore.”
“Ah,” disse il Preside e fece una pausa. “In questo caso… ma insomma,
lei capisce, esporsi così da solo… Lei sa che gli studenti cercano solo
delle scuse per fare ricorso…”
“Non si preoccupi, non ci saranno motivi per un ricorso.”
“In questo caso… in questo caso, ecco, sono più tranquillo.”
All’idea di avere il potere di punire il colpevole Marcello già si
sentiva meglio. Anzi, si sentiva sollevato al pensiero di poter
torturare lentamente Emilia. Era stata Emilia, quella cretina. Come se
lui non potesse riconoscere la sua grafia dopo essersi distrutto gli
occhi a decifrare quelle zampe di gallina che disseminava sui fogli dei
compiti in classe!
Uscì dalla presidenza col nome e il volto di Emilia che gli
rimbalzavano nella testa, e forte, si sentiva forte, alto e potente, di
nuovo. Aveva riacquistato tutta la forza che aveva perso davanti a quel
disegno e quando incontrò Federica fu addirittura gioviale con lei.
“Carissima!” disse e l’abbracciò. Le fece addirittura una carezza.
Tanto era forte che poteva ben essere magnanimo. Sapeva che lei
desiderava che lui la toccasse e così lo fece godendosi la riconoscenza
del volto di lei, bevendosi fino all’ultima goccia la gioia e lo
stupore che veniva dal fondo degli occhi della sua collega. La lasciò
così, senza parole, nel corridoio e si allontanò agitando la mano “Ho
lezione, ho lezione! A dopo!”
La sua classe, eccola, là in fondo. La luce delle finestre faceva
brillare la porta. Le nuvole erano sparite e il sole rimbalzava sulle
finiture di metallo delle finestre al suo passaggio. Entrò e si
avvicinò alla cattedra. Gli studenti, al solito, tardarono ad
accorgersi che era entrato, o insomma non ci facevano molto caso e
continuavano a parlottare alcuni seduti, alcuni in piedi, la
maggioranza dandogli le spalle. Posò la sua ventiquattr’ore sulla
cattedra e rimase, serio, a guardarli. Non faceva mai così. Di solito
si metteva subito a sedere senza guardare nessuno e cominciava a fare
l’appello a cui i ragazzi rispondevano svogliatamente spesso dopo che
li aveva chiamati due o tre volte. Ma stavolta no, rimase in piedi e li
guardò. Presto gli studenti fecero silenzio e un po’ preoccupati
andarono a sedersi ai loro posti. Dopo un paio di minuti di silenzio,
Marcello scoppiò a ridere. I ragazzi lo guardarono sconcertati, alcuni
si guardarono tra di loro. Lui non aveva mai riso in classe, non così
almeno. Continuando a ridere fece qualche passo verso le prime file e
mentre percorreva la classe disse: “Chi ricorda il nome dell’imperatore
romano che scoppiò a ridere improvvisamente di fronte a due senatori?”
Tutti tacevano. “Avanti, ragazzi, nessuno lo sa? L’imperatore che si
mise a ridere, così senza motivo… e sapete perché?” Tutti continuavano
a tacere. Marcello si diresse verso il banco di Emilia, la guardò, poi
guardò gli altri. “Perché, disse, si era improvvisamente reso conto che
la loro vita era nelle sue mani… che avrebbe potuto farne ciò che
voleva.” E guardò Emilia. Lei sorrise e sbuffò. “A presso’, ma che mo’
ce fa pure latino? Nun glie bastava insegna’ italiano?”
Qualcuno sorrise. Marcello tornò verso la cattedra. “Emilia, cara
Emilia, tu sai bene che in altre sezioni insegno anche latino. Qui
invece, solo italiano. Ti dispiace? Non ti piacerebbe vedermi più
spesso? Vedere più spesso la mia faccia?” Si fece un po’ rosso nel dire
questo e non si voltò, vergognandosi della sua faccia.
“Come no?” disse Emilia “Sarebbe un onore!” E rise, insieme agli altri.
“Bene,” disse Marcello e si voltò “ora che abbiamo assodato la nostra simpatia reciproca possiamo cominciare la lezione.”
Il nostro personaggio riflette sulla solitudine. Come sempre, il link per leggere delle avventure dell'ossessionato, cliccare
qui.
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“No… non sono perfetto,” pensava, “ed è per questo che l’imperfezione
altrui mi dà noia. Ho abbastanza da fare con la mia imperfezione. Ci
lavorino gli altri sulla loro…”
Si annega in se stessi quando si ha troppo tempo per pensare, pensare
dentro di sé e allora si diventa come Kant. I filosofi puri sono tutti
così elaborati, quasi incomprensibili nelle cose che dicono perché si
chiudono nella torre d’avorio. Non fanno commercio delle loro idee con
gli altri che le imbastardiscono, le annacquano. Ragionare con sé
stessi è come distillare il pensiero, far passare le stesse idee
attraverso gli stessi circuiti fino a che diventano cristalline e
filtrate. La grappa del pensiero! Come la grappa è più forte del vino,
anche il pensiero solitario è più forte del pensiero imbastardito dal
commercio con gli uomini. La dialettica… ma quale dialettica? Socrate
si preparava a dare tutte le risposte in solitudine e poi quando
parlava coi discepoli li metteva in ginocchio, mostrava la sua
superiorità, altro che dialettica…
Sono più intelligente di tutti quelli che conosco. Cioè credo di
esserlo, e in un certo senso è vero perché ho più tempo di loro per
pensare, per ponderare. Mi posso alzare a qualsiasi ora del giorno o
della notte per scrivere, posso starmene in pausa catatonica per intere
giornate a far scorrere un pulviscolo di idee tra i neuroni e non c’è
nessuno che mi reclami alla tavola o al letto. Niente distrazioni.
Posso dire quanti “no” voglio e più ne dico più sono libero, più sono
intelligente. Più ho tempo per pensare.
[prosegue la saga del nostro eroe ossessionato. Per leggere tutta la vicenda, andare alla rubrica "
ossessione"]
Non riusciva a togliersi la macchia dai pantaloni e si sforzò di non
farci caso, di pensare ad altro. Si guardava intorno, leggiucchiava
Leopardi… ma niente, l’occhio tornava sulla macchia. Persino quando non
la guardava riusciva a vederla. Nel suo campo visivo la macchia
troneggiava come un alone scuro, gli tingeva i margini dell’occhio, lo
distraeva. Si era appena alzato per andarsene, esasperato, quando gli
squillò il cellulare. Era Federica. Ancora! Ma non c’era un modo di
bloccarele telefonate di Federica? Un modo perché a lei, e solo a lei,
il suo cellulare risultasse spento, irraggiungibile. Non gli andava
proprio di parlarle, specie dopo la cena insieme l’altra sera. Si era
montata la testa, ecco sì, si era montata la testa. Adesso credeva che
lui, solo perché l’aveva invitata in un momento in cui la solitudine
era diventata troppo pesante, solo perché per pietà… ma chi stava
prendendo in giro? Era per pietà di se stesso e non di lei che l’aveva
chiamata, le aveva detto della pizzeria di cui aveva tanto sentito
parlare e l’aveva invitata a uscire.
“Pronto? Sì… ah, scusa, non l’avevo sentito, tengo la suoneria bassa…”
“Ma sei per strada o in un museo?”
“Come? Ah, no, per strada, per strada. Non senti che casino?”
“E allora alzala la suoneria per strada, no?” disse lei e rise. Che
rabbia quella risata cristallina, leggermente isterica, dai toni troppo
acuti…
“Che fai?” chiese lei.
“Che faccio? Passeggio, no?”
“Ma rispondi a tutte le domande con delle domande?” e rise di nuovo.
“Scusa, non ti sento bene, sono entrato nei vicoli…”
“Non mi avevi detto che stavi passeggiando per Viterbo” e rideva
rideva… Per poco non le attaccò il telefono in faccia. Si sentiva
nervoso, si dovette fermare e appoggiarsi a un palazzo, sfregandosi
furiosamente la macchia dei pantaloni.
“Allora ci vediamo domani a scuola?” concluse lei.
“Certo, domani.”
“Meno male che questo l’hai sentito bene, altrimenti non ci saremmo
visti domani! Ciao…” riattaccò senza riuscire a trattenere le risa,
come se qualcuno le stesse facendo il solletico.
“Ciao.” Lui riattaccò più volte, in preda a un raptus. Gli sembrava di
aver subito un aggressione, di essere stato assalito e derubato e ora
se ne stava immobile mentre l’aggressore si allontanava. Si guardò
intorno, respirò e si diresse verso casa. Non le capiva proprio le
donne. Che bisogno c’era di attaccarsi così velocemente? Mandi un
piccolo segnale e ti saltano alla gola come animali feroci… Gli
facevano passare la voglia di rivederle, di stare con loro, gli
facevano persino paura. Tutte quelle risate, quei gridolini, quegli
occhioni pieni di luci e speranze si spalancavano sulla sua vita e lo
fagocitavano, lo inseguivano implorando, tenaci, insistenti… Era
insopportabile. Faceva venire i brividi.
Camminando verso casa ripensò a sua madre che gli diceva sempre che lui
era troppo esigente, doveva smetterla di cercare la donna perfetta ed
adeguarsi all’imperfezione: la vita in due è tutta nell’incontro di due
imperfezioni. Era forse perfetto lui?
“No… non sono perfetto,” pensava, “ed è per questo che l’imperfezione
altrui mi dà noia. Ho abbastanza da fare con la mia imperfezione. Ci
lavorino gli altri sulla loro…”
Vide una sua studentessa attraversare la piazza in una corsa
sgangherata, inseguita da un ragazzo. Cecchi. Emilia. Emilia? Ah, sì:
Emilia. Si faceva chiamare Barbara però perché odiava il nome Emilia e
odiava lui, il professore che insisteva a chiamarla col nome da
registro. C’erano due Cecchi nella classe, Roberto ed Emilia. Non erano
nemmeno parenti, erano solo un curioso caso di omonimia in un liceo che
raggruppava studenti che vivevano, più o meno, nello stesso quartiere.
Due Cecchi di due famiglie completamente disgiunte, chissà quando,
dall’antenato comune. Se pure ce n’era stato uno. Così lui li chiamava
per nome, per non confondersi.
“Presso’,” diceva Emilia, “ma chi se confonde? Semo disciassette in
classe,” strascicava sempre le velari del gruppo ‘ci’, “e lui è ’n
secchione. Nun lo chiama mai alla lavagna. Chiama sempre a me. Come
famo a sbagliacce?”
“Facciamo, Emilia, come facciamo a sbagliarci. Emilia è un bel nome,
nobile. Barbara è un nome… barbaro.” Qualcuno sorrideva alla sua
battuta, sempre la stessa. “E io so’ Barbara… che ’n c’o sa, presso’?”
Alla battuta di Emilia invece tutti scoppiavano in una fragorosa risata.
Emilia portava i capelli corti dal lato destro della testa, rasati, e a
caschetto al lato sinistro. Neri con due strisce rosa intenso. Anello
al naso, anello al sopracciglio destro. Sembrava voler castigare quel
lato del suo corpo, il lato controllato dall’emisfero sinistro,
l’emisfero razionale. Il lato sinistro del volto, quello controllato
dall’emisfero emotivo, era completamente coperto dai capelli e lui non
credeva di averlo mai visto direttamente, in buona luce. Ma questa era
quasi psicologia popolare, pensieri da casalinga frustrata. Marcello
dovette censurarsi per la seconda volta quella mattina e sforzarsi di
non comportarsi come un mediocre. Ben altro, ben altri erano i pensieri
che doveva fare!
Osservò la ragazza correre tutta piegata da un lato, mentre mandava
delle grida terribili, come se la stessero sgozzando. A lui parve che
potesse inciampare e cadere da un momento all’altro sugli strascichi
dei suoi pantaloni di quattro taglie più grandi. Sopra aveva una
maglietta corta e sottile, che a malapena le copriva il seno. Il
ragazzo che la inseguiva era vestito come lei, solo con una maglietta
un po’ più lunga. I capelli rasati a mezzo cranio, proprio come lei, ma
dal lato opposto. Quando la raggiunse, perché la raggiunse, il
professore lo sapeva che l’avrebbe raggiunta, aspettava che la
raggiungesse, la buttò a terra, vicino alla fontanella e i due si
baciarono. Così, in mezzo a tutta la gente che passeggiava. Tra le
biciclette e le coppiette, il banco dei fiori e la pozza d’acqua a
terra. Lei poi lo spinse via con un grugnito e si rimise a correre,
verso il bar dove lui era seduto. Lo vide e continuò a correre
sorridendo fino al suo tavolo. Si fermò a un metro da lui e sbatté le
mani, col fiatone, sul tavolino che traballò facendo schiumare un po’
del cappuccino sul piattino.
“A presso’, ma che ce fa qua? Che c’ha ’n appuntamento?” Intanto il
ragazzo l’aveva raggiunta e stava in piedi dietro di lei, piegata in
avanti a guardare il professore e a parlargli in faccia col fiato tanto
grosso che a lui arrivava tutto il sapore della sua bocca, il sapore
del bacio che aveva appena dato. Il ragazzo lo guardava fisso e posò le
mani sui fianchi di lei.
“Stavo ripassando Leopardi.” disse Marcello e posò il libro sul
tavolino, sulla mano di lei. Lei la ritrasse come fosse stata morsa da
un serpente.
“Madonna, presso’! Ma lei ’n se schiarisce mai?” Disse lei e si mise a
ridere tirandosi i capelli indietro. Marcello era calmo, si sentiva
come quando era in classe: una steppa silenziosa nel petto, un fruscìo
sommesso nella testa. Sorrise, appena.
“Vabbé presso’, io vado. È sempre bello vedesse così per caso, fuori de scuola, no? Mejo che vedesse a scuola!”
“Eh già,” annuì Marcello, “si acuisce il senso di comunità quando si incontra qualcuno fuori dai confini del proprio gruppo.”
Emilia si voltò a guardare il suo ragazzo. “Che t’avevo detto? Eh…?” Il ragazzo sorrise e i sue se ne andarono mano nella mano.
Che gli aveva detto Emilia di lui? La sua frase che mai aveva di
particolare, che mai poteva essere di speciale per rappresentare tanto
bene ciò che Emilia poteva aver detto al suo ragazzo? Marcello sollevò
pensoso la tazza col cappuccino e bevve un sorso. Una goccia cadde
dalla base che si era inzuppata con l’arrivo della ragazza e gli
macchiò i pantaloni.
(Per vedere le puntate precedenti, cliccare
qui)
Stava iniziando la primavera, niente di meglio per sedersi al suo bar
preferito, accanto alla libreria che gli ricordava sempre la prima
volta che aveva visto Fahrenheit 451 di Truffaut. Era andato a vederlo
nel 1980 con una ragazza del suo corso all’università, Matilde. Lui
credeva di essere innamorato di lei e, peggio ancora, credeva che lei
fosse innamorata di lui. O insomma, così gli era parso. Era stata lei
del resto a chiedergli di andare al cinema e quando l’aveva vista, con
la gonna lunga e ampia, i capelli sciolti come una zingara aveva
pensato: è così allora che succede, è così che si riconosce che
piacciamo a qualcuno. Glielo vedeva addosso, nei vestiti, nei capelli,
nell’ombretto azzurro che aveva messo. Rimase poi perplesso quando non
gli permise di pagare il biglietto anche per lei e quando lo salutò
dandogli la mano, proprio davanti al portone. L’aveva riaccompagnata a
casa e a ogni passo si chiedeva se non avesse dovuto starle più vicino,
non so, sfiorarle il braccio accidentalmente. Lei parlava, parlava e
lui ascoltava meccanicamente, più interessato al suo tono di voce che
alle sue parole. Non ci aveva capito quasi niente del film, lui, perché
per tutta la proiezione aveva sbirciato il volto di lei contorcendo le
pupille fino a stare male. Non voleva farle notare che la stava
guardando e riusciva solo a intravedere il suo profilo illuminato dalle
luci nette, rosse e giallastre del film. La ragazza sullo schermo
recitava impassibile e sembrava la gemella di Matilde. Incomprensibile,
impenetrabile.
Dopo averla accompagnata a casa se ne andò un po’ in giro, ripensando
alla serata, chiedendosi se non avesse sbagliato qualcosa. Risentiva il
palmo della mano di lei nella sua quando si erano salutati e gli era
sembrato duro, piatto, senza quelle montagne e quelle vallate che tutti
hanno nelle proprie mani. Lei aveva velocemente ritirato la mano dalla
sua, senza lasciare che le loro dita si toccassero e sui polpastrelli
di lui era rimasta solo la sensazione del contatto col dorso duro e
ossuto della mano di lei, bianco e un po’ freddo.
Rimase a letto una settimana, si era preso l’influenza e quando tornò a
lezione la vide che rideva con un altro ragazzo e gli passava la mano
sulla guancia, in una lunghissima, interminabile carezza.
Istintivamente si toccò la guancia e dovette constatare che lui non
aveva il ricordo della mano di Matilde addosso. Qualcosa non era andata
per il verso giusto. Ma cosa?
Fu quella per lui la prima vera delusione d’amore e, sebbene lui non
fosse veramente innamorato di lei, la delusione stava nell’essersi
sbagliato, nell’aver immaginato che lei fosse innamorata di lui. Si
vergognava come un ladro a ripensarsi come un idiota che passa una
serata a scrutare il volto di una ragazza credendo che lei abbia dei
sentimenti per lui per poi scoprire che quell’impassibilità era invece
assenza d’amore. E si vergognava al ricordo dell’impercettibile
movimento che le sue dita avevano fatto quando si erano stretti la
mano, un movimento verso il braccio di lei, l’inizio del polso.
Probabilmente lei non se ne era nemmeno accorta, ma lui lo sapeva di
aver fatto quel gesto e ora se ne vergognava di fronte al tribunale
della sua intelligenza. Un idiota che non era in grado di decifrare i
segnali che le donne gli mandavano.
Dopo quella delusione ce ne furono altre perché man mano che cresceva
sembrava sempre più incapace di decifrare i sentimenti delle donne con
cui usciva e per questo si asteneva da averne lui stesso di sentimenti.
Era come se avesse bisogno di sapere che lo amassero per potersi
innamorare. E non gli sembrava mai che le donne lo amassero veramente.
Anche quelle che glielo avevano detto, anche quelle che avevano pianto
davanti a lui, tenendo gli occhi sgranati e rossi proprio a un palmo
dalla sua faccia, senza dire una parola.
Anche stavolta sollevò il contenitore ma vide riflessa nello specchio
un’ombra passare sulla tenda e si sorprese a specchiarsi. Non si era
mai visto per caso in quella stanza, si era sempre riflesso
intenzionalmente e quell’inaspettata immagine di sé lo lasciò
imbambolato. Teneva le spalle un po’ ricurve perché si era abbassato a
guardare la cucitura e la giacca abbottonata gli faceva un grande bozzo
all’altezza dell’addome. Visto nello scorcio dall’alto in basso notò
che si stava stempiando più di quanto non credesse e la fronte era
tutta attraversata da profonde righe per via delle sopracciglia tutte
inarcate nel guardare se stesso. Degli occhi vedeva solo la pupilla
scura e grande e il naso copriva quasi completamente i baffi. Si trovò
mostruoso.
Posò subito il contenitore, senza nemmeno fare caso a dove lo stesse
mettendo e cominciò a stirarsi la giacca verso il basso per eliminare
le pieghe. Allungò la mano per prendere la spazzola e notò la
ricucitura. Per la prima volta la vedeva così com’era: un grumo di fili
in mezzo a un vecchio centrino sbiadito. Si guardò di nuovo allo
specchio. “Ma che sono diventato, una vecchia zitella?” disse al suo
riflesso, mettendosi impercettibilmente in posa. Aggiustò lo sguardo,
inarcò un solo sopracciglio e poi, senza pensarci, tolse il centrino.
Così, con uno strattone. Non gli era mai riuscito il gioco di prestigio
di togliere le tovaglie senza spostare gli oggetti che sono posati
sopra, ma stavolta tutto andò a meraviglia. Solo il pettine per i baffi
sobbalzò e sbatté contro il vetro, ma per il resto, niente. Perfetto.
Guardò il comò. Stava bene così, anzi meglio.
Piegò il centrino e lo mise nel cassetto della cucina. Prese Leopardi, le chiavi e uscì.
Finalmente domenica! Si svegliava sempre allegro di domenica, si faceva
la doccia e andava a fare colazione a Campo dei Fiori. Durante la
settimana si faceva la doccia la sera, una vecchia abitudine che gli
aveva dato sua madre. “Si deve dormire con tutti i pori aperti e
puliti. Aaaah. Respira. Lo senti come si sta meglio così sotto le
lenzuola?” e gli rimboccava le coperte. Lo faceva sempre e sempre gli
diceva quella frase. Gioiva a sentire lei stessa quelle parole e si
sentiva lei stessa pulita perché anche il figlio lo era.
Ma la domenica, eh, la domenica è tutt’un'altra cosa. La domenica si
porta se stessi a spasso, ci si mostra. Si mira e si è mirati, come
diceva Leopardi. "Già, Leopardi" pensò mentre era sotto la doccia. Oggi
si sarebbe portato Leopardi al bar, tanto più che doveva preparare la
lezione del lunedì. Non vedeva l’ora di cominciare Leopardi: il suo
poeta, anzi di più, l’uomo che cantava con la sua voce. A Marcello
sembrava che Leopardi fosse la cassa di risonanza delle sue deboli
corde vocali. “Più lievi e delicate, ma fatte della stessa materia” si
disse e si pettinò contento i baffi allo specchio. Aveva un pettine
apposito per pettinarsi i baffi e lo teneva sul comò accanto alla
spazzola col manico d’argento per i vestiti (eredità della nonna), il
pettine per i capelli e il contenitore per fazzoletti. Di quelli che si
tirano su uno a uno. Il tutto poggiava su un centrino (eredità
anch’esso) che aveva una ricucitura al centro e lui si curava ogni
volta di metterci il contenitore proprio sopra, perché non si vedesse.
Aveva anche la strana abitudine di sollevare il contenitore, se era già
sopra la ricucitura, per controllare che quella ci fosse sempre.
Innocua conferma quotidiana che gli dava quel tanto di pace per
cominciare la giornata.
Visto lo strepitoso successo della prima parte del racconto pubblicata
piu' sotto (praticamente non se l'e' filata nessuno) mi sono lasciata
convincere a metterne qui un altro pezzo.
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Entrò in bagno e batté la mano sul muro. Non era certo quello che
avrebbe voluto, uscire con la collega di biologia, single da poco, con
una gran voglia d’avventure.
Si guardò allo specchio. Quarantaquattro anni, come i gatti. Gli venne
da sorridere e notò tutte le rughe intorno agli occhi. Si fece serio.
“Troppi?” disse allo specchio, cercando di avere un’aria naturale. Si
trovò repellente. Voltò la faccia verso le mattonelle e rimase un
attimo a respirare dalle narici lontano dalle luci sullo
specchio.
“Naturale, devi essere naturale. Quando sei naturale, puoi anche avere
mille rughe e vai sempre bene, lo sai…” Sollevò lo sguardo sulle
mattonelle bianche e si vide smerigliato sulla superficie irregolare
davanti a sé. Increspature come nell’acqua, quel tanto di sfocato e
quel tanto di riverbero che poteva far pensare a un lago, un fiume… una
superficie d’acqua. Le rughe, le imperfezioni, tutto spariva. Solo i
suoi occhi neri, le sopracciglia aggrottate e quel tanto di baffetti
che teneva sopra il labbro si vedevano. Sorrise, compiaciuto e quasi
cattivo a quell’immagine triangolare di se stesso, quella prospettiva
laccata e irregolare della mattonella.
Mise le mani nell’acqua tanto per giustificare a se stesso che era
stato in bagno e uscì. Camminando per i tavoli si sentiva forte, uomo,
alto e potente. Una roccia, un gigante. I polmoni sembravano essersi
allargati, ogni ventricolo sembrava trasportare il sangue più
efficentemente. Tutto scorreva nel suo corpo. Sentiva le gambe, a ogni
passo. Una gamba, poi l’altra, come al rallentatore. Non era nemmeno
concepibile che lui potesse inciampare su una sedia, che potesse fare
un gesto goffo al passare del cameriere. Lui era un essere umano, lo
sentiva: era vivo. Voltò il capo e sorrise alla signora che si
aggiustava il rossetto mentre il marito si infilava un’enorme
forchettata in bocca. La signora rimase a guardarlo passare col
rossetto sollevato e le labbra scostate, un po’ storte, in una
posizione buffa. Lui sentì il suo stesso sorriso che gli si stendeva
sulla pelle del volto e tornò a guardare davanti a sé pensando “Sono
più bello di lei.”
Si avvicinò al tavolo in cui la sua collega lo stava aspettando con
tutto il fascino di un uomo che sa di poter rifiutare la donna che ha
di fronte.
“Ho preso anche delle mozzarelline!” disse Federica abbassando lo
sguardo a guardargli le gambe, giù fino ai piedi. Istintivamente anche
lui si piegò a guardarsi le scarpe, come se ci fosse qualcosa che non
andava e per poco non distruggeva l’effetto benefico dello specchiarsi
nella mattonella con un’improvvisa insicurezza.
Ma no, tutto andava bene. Le scarpe non avevano problemi, lui era
forte, perfetto. Si sedette. E subito non aveva niente da dire. La
guardò e si accese una sigaretta. Si voltò a guardare dove si trovasse
il cameriere.
“Ma è venuto proprio lui, il cameriere?”
“Ah… ma davvero la tua è un’ossessione!”
“Mi sembra di averlo già ammesso prima.” Disse lui e si sentì un dio
mentre si voltava lasciando cadere con noncuranza la cenere a terra.
Quella notte, lo sentiva, avrebbe dormito bene.
“Potrebbe essere un’ossessione, si. Era questo che volevi sentire?”
Disse, e si accese una sigaretta. Federica rise. “Sì, rea proprio questo.”
Marcello sbuffò. “Ora che mi hai psicanalizzato, possiamo ordinare?”
“Io so già quello che voglio” disse Federica e gli prese la sigaretta
dalle dita e se la mise tra le labbra. Socchiuse gli occhi dietro la
linea di fumo e fece una faccia beffarda da film d’altri tempi.
“Se solo il cameriere stesse meno dietro alla ragazzetta in minigonna
al tavolo in fondo…” disse Marcello, e nel dirlo fece un gesto secco, a
tutto braccio, verso il cameriere giovane, con la testa che brillava di
gelatina che se ne stava con la mano contro la parete e il gomito
poggiato sul tavolo in fondo. Due ragazze bionde ridevano con la testa
all’indietro alle sue parole.
“Devi smettere di notare sempre tutto” disse Federica e posò la
sigaretta sul posacenere. “Non è carino essere sempre così attenti.
Metti noi mortali in difficoltà.” E si avvicinò col viso a un palmo dal
suo.
“E dài, non scherzare sempre!” disse lui e si scostò indietro, posando
la schiena sullo schienale della sedia impagliata, prendendo
meccanicamente la sigaretta tra le dita. Poi la posò di nuovo e fece
per alzarsi.
“Dove vai?” chiese lei.
“Chiedo dov’è il bagno e intanto ricordo al cameriere che ancora non
abbiamo ordinato.” Fece un passo ma lei lo tirò per la giacca. “E se
viene a prendere l’ordinazione cosa gli dico?”
“Per me” cominciò a dire lui, ma lei lo prevenì “…una margherita, lo so. Come sempre.”
“Sì, come sempre.” Rispose lui e senza fare una grinza si diresse verso il cameriere.