
(fotogramma tratto da "Cloverfield")
Non c’è probabilmente niente di più difficile che fingere naturalezza, e forse ancora più complesso è riusire a volgere il banale realismo in acuta finzione.
La descrizione di un evento catastrofico e le ripercussioni che determina, le onde d’urto e rilascio, sulle persone è una narrazione le cui origini affondano tanto profondamente negli abissi dell’immaginario collettivo americano da essere ormai un topos spento, senza più energia catalitica emotiva, senza più forza di esprimersi in modo originale. Gli Stati Uniti sono una nazione con una massa imponente di diversità geografiche ed etniche, tenuta insieme da un legame profondo e psicologico: la disposizione per il melodramma. Come fossero un’immensa risorsa di casi clinici che soffrono di una stessa patologia, proprio perché tanto omogenei nei tratti profondi, gli americani offrono sempre preziose testimonianze del loro status psicologico attraverso la produzione di opere di massa. Non è un caso, infatti, che il cinema sia diventato il medium d’elezione per poter continuare a raccontare ossessivamente la propria storia, esattamente come un paziente che soffre di sindrome post traumatica e rielabora costantemente immagini e racconti dello stesso evento. E’ lo stravolgimento della vita, delle aspettative più semplici come quelle della sopravvivenza ad aver segnato, e continuare a segnare come una profezia che si autoavvera la psicologia del popolo americano. L’uomo di Cromagnon non si aspettava di sopravvivere con facilità e concentrava le proprie forze a proteggere la propria vita, non il perseguimento della felicità. Di contro, gli americani sono un popolo che nasce in un momento avanzato della storia umana, quando la sopravvivenza non aveva più il carattere primordiale di lotta contro elementi spaventosi, ma di scontro intestino tra le diverse classi sociali. Un tale uomo evoluto, dunque, quando si trova a combattere le forze della natura con la clava, non può che sviluppare traumi profondi, avendo l’animo preordinato a combattere altro tipo di mostri. Il cinema hollywodiano ha raccontato ossessivamente l’impotenza contro terremoti, inondazioni, incendi e persino battaglie disperate: non è un caso che la guerra di secessione sia stata quasi sempre raccontata dai sudisti che l’hanno persa e non dai vincitori yankees. Nell’ecatombe di massa è sempre l’individuo a sopravvivere per una serie di circostanze caratteriali e fortuite in quelle che solo in americano hanno trovato espressione linguistica, le
cautionary tales, che nella nostra lingua si possono incertamente tradurre come favole che ammoniscono.
Ossessione di morte, distruzione, perdita e lotta impari: una diligenza assalita da decine, centinaia di indiani, il gruppo di amici in disperata fuga da un mostro, una spaventosa creatura non morta e non viva dei film dell’orrore o un’intera città sterminata da un dinosauro impazzito. E’ per questo che chi realizza l’ennesimo film sul tema di Godzilla, di Alien, dell’Armageddon si trova di fronte al quasi impossibile compito di essere originale. The Blair Witch Project ha tentato, in modo un po’ maldestro e ammiccante, di offrire un documento realistico, anzi reale, del terrore di un gruppo di fronte all’aggressione di forze sconosciute, e sono infatti proprio i documentari a essere diventati la risorsa più popolare di cautionary tales per un pubblico mai stanco di sentirsi raccontare ancora una volta quanto hanno sofferto in passato.
Cloverfield si posiziona su questa linea. L'intera pellicola è proposta come fosse la ripresa accidentale di una catastrofe, un home movie girato da amici che intendevano documentare una festa d’addio. E’ straordinario come il film sia ben scritto e strutturalmente impeccabile nel mimare riprese amatoriali, lasciando tuttavia vedere a sufficienza cosa stia accadendo nella realtà. I personaggi si rivelano poco a poco come in un’ottima sceneggiatura classica, in modo naturale e indiretto – attraverso i loro gesti, il loro modo di parlare e compiere azioni – e il montaggio (apparentemente in macchina) che combina lunghi piani sequenza con squarci di immagini casalinghe precedenti alla catastrofe rimaste impresse per l'imperizia dell’operatore amatoriale, riescono a ritrarre in modo eccellente il prima e il dopo di una New York devastata da un terremoto e sterminata da una serie di raccapriccianti mostri che sembrano fuggiti dal laboratorio di Rambaldi.
Come hanno potuto dunque i registi e gli sceneggiatori ottenere un risultato così originale partendo da una storia tanto trita? Rompendo le regole narrative, innanzitutto. Il protagonista, colui che ha la videocamera in mano, non dovrebbe poter morire, pena la fine della registrazione; la storia invece procede lasciando più volte a terra i cadaveri degli operatori accidentali e passando lo strumento di registrazione (forse il vero protagonista della vicenda) da un personaggio all’altro, fino alla morte degli ultimi superstiti e la sopravvivenza solo del nastro magnetico. Cloverfield è un racconto sulla falsariga di tutte le altre storie che vogliono lasciare un documento del dolore, eppure ha un’attenzione maniacale per la forma e fa di un semplice thriller un'opera simile nelle intenzioni ai film di Hitchcock in cui niente, con naturalezza e tratto leggero, è lasciato al caso. Il buio di un tunnel punteggiato di rade luci sulla volta, il neon spezzato che manda solo flash intermittenti, la sovraesposizione di ciò che è fuori a una vetrata accostata alla sottoesposizione di ciò che è dentro: queste scene, notoriamente incubi per il direttore della fotografia, diventano la cifra stilistica di un racconto che si struttura molto più attraverso la forma del narrare che affidandosi alla trama stessa.
Come l’acclamato documentario
La vita dopo gli uomini, uscito due settimane fa su History Channel, Cloverfield non si preoccupa di spiegare perché l’umanità si trovi di fronte alla propria fine: racconta semplicemente la fine. Ciò che non è chiaro ai protagonisti non è svelato nemmeno al pubblico lasciandolo di fronte al difficile compito di interpretare da solo gli eventi. Nella lotta contro i mostri si muore, anche se si è protagonisti. Gli uomini scompaiono, rimangono solo le storie.
Dalla toilette allo studio
Metti che stai camminando lungo il corridoio e al primo passo già ti
senti irrevocabilmente lontano dall’antro d’origine mentre il vano che
appare nel fondo proietta cento paurose ombre. Metti che il vano lo
conosci, che ci stai andando di tua volontà e che non ci può essere
altro che le cose con cui tu stesso l’hai riempito. Ma al secondo passo
formuli il pensiero impossibile e lasci che scorrano come strappi a zig
zag le giustificazioni con cui la ragione cerca di immettere
plausibilità nel tuo pensiero. Metti che potrebbe un uomo alto quanto
la parete e che la sua ombra si proietti in lungo tanto da vedersi
quando si è appena sulla soglia. Cosa sarebbe più spaventoso, trovarsi
i piedi immersi nella chiazza scura che scende come un liquido da quel
corpo controluce – trovarsi con il viso, il petto e le mani
completamente avvolti da quella palpabile oscurità – oppure la forma
stessa che ti aspetta immobile, quelle spalle curve quasi fino al
soffitto e un che di impreciso nella disposizione degli arti? Metti che
oltre il vano la porta di casa è chiusa a chiave e che tu ora lo
ricordi, ne sei certo e allora ti chiedi come sia potuto passare un
uomo così grande per le feritoie delle tue persiane – socchiuse, quelle
sì – o forse ha rotto la vetrata dell’ingresso e si è agilmente
lanciato dentro in un’abile capriola circense? Per un attimo lo vedi
rialzarsi veloce facendo un saltello, oplà, e ricadere sulle gambe
unite, senza esitazione. Cosa sarebbe più spaventoso, esser testimoni
di un inatteso spettacolo da saltimbanco, che si tiene privatamente nel
proprio tinello, o l’enorme figura dalle braccia grandi e forti quanto
le gambe che sta ferma, in silenzio nella semioscurità? Metti che ormai
sei arrivata al vano e ti volti pensando che puoi sempre tornare
indietro da dove sei venuta, anche se l’antro da cui sei uscita è ormai
perso nel nero del tuo percorso e non hai tempo di pensare cosa possa
esserci ora al di là di tutto quel nero, se mai riuscissi a
raggiungerlo superando tutte le membrane che il buio soffia contro il
corpo che lo attraversa. Un piede è già oltre la soglia, alla tua
destra, ma il tuo corpo ancora non si è girato a seguire la rotazione
del passo: ancora qualche istante e l’uomo disarticolato salta con
tutta la sua ombra dalla parete opposta in una perfetta capriola
sospesa giusto in tempo per atterrare sul tuo corpo appena comparso, le
mani leggermente tese in avanti a proteggerti. E scomparire così,
infiltrando il buio del suo celarsi su tutta la superficie della tua
carne, nei capelli che ora riavvii prima tornare a sederti davanti al
computer.
Delicate matrone che sedute patiscono il caldo e il freddo, sospirano per la partenza del figlio e soffrono d'asma. Cautamente invadenti, insistono in nome dell'amore, dell'onorabilita' di essere ospitali e bisbigliano alle vicine parole che i mariti non hanno voglia di sentire. Mai sole, sempre con la mano posata sul braccio della comare, largo, che tende le cuciture sotto l'ascella, o la scopa perlustrare la veranda, o il mestolo a girare legumi e carni, o il telefono in mano per lamentare il caldo millennario, la solitudine. Ti invitano sempre a entrare, a restare, a parlare con gli occhi che implorano qualche novita', anche un'inezia di informazione che riempia la loro vita che si snoda tra le pause del frinire delle cicale e i travasi da orci di olio, secchi di acqua sporca, fazzoletti ricamati da stirare. Le figlie passano veloci in minigonna e tornano tardi, il trucco pesante sfatto, i capelli che torreggiano sfiniti sulla testa e il segno rosso sopra il ginocchio delle gambe incrociate a lungo al tavolino di un bar.
La virtù del non avere ciò che si vuole
Stimola la fantasia, l’aspettativa, la creatività e l’intelligenza.
Conduce quindi a una vita contemplativa, riflessiva,
in cui si vagliano i pro e i contro dell’oggetto del desiderio e si può
anche arrivare ad analizzare se stessi e i motivi per cui siamo portati
a desiderare proprio una cosa che non riusciamo ad avere.
La fantasia è utilissima per creare i vari scenari
che avverranno quando poi avremo quello che vogliamo e,
alternativamente, negli animi più cupi, può sviluppare una serie di
fantasie di aggressività, vendetta e morte nei confronti di chi o cosa
si frappone sulla nostra strada. Nei casi di depressione può portare a
sviluppare sogni di autodistruzione e psicosi di demerito.
L’aspettativa è un’arte poco frequentata dal nostro
secolo – e da quello appena passato – la gratificazione immediata,
persino precedente al desiderio, la gratificazione di un desiderio
indotto hanno creato una casta di individui incapaci di aspettare e
avere aspettative. In realtà l’aspettativa si unisce alla fantasia e
conduce alla creatività. Più è forte il bisogno, e maggiore il nostro
esercizio nella fantasia, più saremo in grado di costruire la strada
per ottenere il nostro scopo. Nei casi negativi, si sviluppa sindrome
da paralisi, effetti depressivi immobilizzzanti, insicurezza nelle
proprie capacità e tendenza alla rassegnazione.
La creatività è la molla che muove il mondo. È forza
generatrice e stimolo alla trasformazione della realtà. Ci permette di
inventare progetti, scappatoie, impalcature reali o ideali che ci
avvicinano al nostro desiderio. Nei casi negativi crea illusioni di
riuscita e sindrome dell’incompreso, eccesso di puntigliosità nel
completare i propri propositi creativi e soprattutto megalomania
frustrata.
L’intelligenza ci permette di mediare le tre fasi
precedenti e di capire quali siano le strade migliori, di informarci in
modo avveduto dei passi da fare, ponderare i tempi e i modi, usare
quanta più capacità critica possiamo, verso di noi e verso il nostro
obiettivo per risolvere il problema. Nei casi negativi si finisce a
essere ipercritici, insoddisfatti di qualunque teoria o mossa pratica.
Tendenza a rinchiudersi in se stessi tanto il mondo non è pronto per la
nostra genialità. Ipercinesi a cazzo (termine tecnico) cioè
l’espressione delle nostre frustrazioni in iperlavoro e sovreccitazione
motoria-intellettiva non controllata. Fine a se stessa.
Cercate di gioire del dono di non avere.
Il sole così chiaro che non diresti cattivo, né buono:
fa il suo lavoro. Si solleva alto più in alto
fino a che non ha dove andare e poi si china,
allunga la mano contro le fronde più alte,
abbassa le creste, sopisce gli ardori (che lui stesso
aveva infiammato), silenzia gli spiriti e lascia
lo scuro ai giocolieri dell’esperimento, fiamme
e fuochi fatui che imitano il suo scorrere, niente
del suo occhio scrutatore e onnisciente,
solo vacui bagliori a preparare quel buio al risorgere
dell’implacabile giorno, spada affilata e cieca
che non distingue più il buono dal bene.
Si può essere così e avere un posto nel mondo?
Là dove un cielo non pesa più come un coperchio ma sventola
delle lenzuola della vicina, azzurre, contro il cielo ormai nero;
è lì che mi siedo, occhi in alto a scoprire il senso di quel frusciare,
la parola ripetuta dello sbattere del cotone terso contro il cielo muto,
proprio lì, cercherò ancora la risposta a quella domanda che non ho mai fatto
e che mi stringe la carotide di un boccone amaro.
L’artista è quell’uomo che comanda con tanta più forza la sua
espressione quanto più è insoddisfatto del controllo che ha sul mondo.
I grandi musicisti hanno un modo molto personale di comandare la creazione ed è questo comando che ne fa l’individualità.
Mozart
è un bambino che ha imparato un gioco da adulti, è un ragazzino che
sbalordisce perché sa costruire con i lego che gli hanno regalato dei
palazzi a grandezza naturale, pieni di stanze, di sorprese
architettoniche e di leggere incongruenze escheriane dove, pure, tout
se tient.
Beethoven non si stanca mai di ricontrollare e riscrivere:

creare
non è abbastanza, ha bisogno della perfezione nelle minuzie. La materia
che immagina è cataclismica, vulcanica e tende a sfuggirgli. Ma lui,
come il personaggio brechtiano, è più forte persino della morte e può
fermare tra le mani il più riottoso dei giri di chiave. È la sua
personalità a dominare e plasmare la creazione.
Brahms
è invece quel signore che andava tutti i pomeriggi a sdraiarsi sul
prato a guardar passare le nuvole. E un giorno tornò a casa con una
sinfonia completa che era riuscito ad afferrare con le sue mani da
contadino, le mani di un vecchio artigiano che, seppur tozze, si
muovono con una delicatezza impensabile tra cose quasi immateriali. E
quel che ne viene è un’opera già naturalmente formata, come se l’avesse
lasciata cadere sul tavolo della cucina appena tornato a casa per
osservarla da vicino, lui, entomologo delle note.

A
Stravinskij
quella musica l’avevano raccontata da piccolo, per farlo addormentare e
lui ne ricorda ogni nota. Cresciuto, ne sposta le varie tessere come un
consumato risolutore di puzzle e riesce miracolosamente a costruire con
gli stessi pezzi migliaia di composizioni diverse, anche minuscole, con
gli avanzi, una o due tessere sfuggite a un quadro più grande.
In uno straordinario articolo intitolato Die Weltliteratur Milan
Kundera si impegna in una critica che nasconde una condanna piena d’amore e
d’amarezza. Con le parole di un padre verso un figlio ingrato, con
quelle di un figlio verso un padre egoista.Come già Leopardi e Kafka,
anche Kundera scrive una lettera al padre, a quest’Europa che non è
ritratta dallo scrittore come una madre ma come un gelido genitore
assorbito dalle proprie smanie di grandezza che, cieco, non vede il
barlume del genio nei propri figli. “E sebbene il mio intelletto mandi
più che un barlume,” lamentava il conte Giacomo al funereo padre,
quest’ultimo, perduto nell’oblìo di una biblioteca popolata di troppi
nomi lontani perché le voci vicine possano trovare spazio, rifiutava di
accordare al proprio figlio la clemenza umana, o anche solo l’orecchio
attento che si accorda a un artista.
È malato di provincialismo questo Padre Europa, nelle piccole e nelle
grandi nazioni. Kundera rimprovera all’intellighenzia europea, con quel
certo tono di stupore che hanno le persone dotate di talento verso i
meno dotati, una “irreparabile ineguaglianza” nel trattamento dei suoi
figli, una miopia imperdonabile che ha portato l’Europa a essere
“incapace di vedere la propria letteratura come un’unità storica e
insisto che ciò costituisce un’irreparabile perdita intellettuale.”
Leggendo l’articolo in cui Kundera resta allibito di fronte alla hit
parade del milieu culturale francese che pone I Miserabili al primo
posto dei libri che hanno maggiormente influenzato la Francia
(confinando Rabelais al quattordicesimo posto, tre posizioni dopo le
memorie di guerra di de Gaulle) ho pensato che parte del suo dolore
potesse dalla sua posizione di “emarginato alla nascita”. La Repubblica
Ceca è definita, con dolore, più volte da Kundera con le parole con cui
Chamberlain nel 1938 ne sanciva la ‘condanna a morte’: “Un paese
lontano di cui non sappiamo nulla”. E Kundera sembra voler rivendicare
il posto della cultura, della letteratura ceca in quella europea, come
se questo, di rimando, lo liberasse dalla posizione che troppe volte si
è trovato ad avere di un rifugiato da una oscura nazione dell’est. Una
volta ha persino fermato la stampa di un suo libro perché nella
prefazione un eminente slavista lo aveva accostato a Dostoevskij e
Gogol, a Pasternak, Mandelstam e ai “dissidenti russi”. Lo scrittore,
comprendendo bene che lo studioso intendeva incensarlo e non
offenderlo, si è sentito tuttavia mal interpretato, addirittura ha
avuto la sensazione di esser stato deportato (sebbene culturalmente).
Ma sfogliando più oltre tra le pagine di questo numero del New Yorker,
ho incontrato la recensione allo spettacolo titanico, nella forma,
nella durata e nelle ambizioni artistiche che Tom Stoppard va mettendo
in scena al Lincoln Center di New York ormai da mesi. Il titolo
generale della trilogia è “La costa di Utopia” e racconta le vicende di
casa Bakunin. Molte i riverberi tra l’articolo di Kundera a questo
firmato da Hilton Als,
alcuni anche in simmetrica giustapposizione (la figura del grande padre
Bakunin come figura buona, incoraggiante e liberatrice dello spirito e
dell’animo dei figli in opposizione a una madre Varvara dispotica,
ottusa e maschilista). Eppure è stato l’attacco dell’articolo a farmi
sobbalzare e tornare freneticamente alle pagine di Kundera. “La storia
disgiunta dal destino: è questo che il commediografo di nascita ceca
Tom Stoppard ci mostra all’inizio di “Voyage”, la prima pièce della
serie “La costa di Utopia”.” Come mai viene citata la nazione di
nascita dell’artista? La ragione sembra discendere dal tema trattato,
quello cioè della famiglia (russa) Bakunin. Nato in Cecoslovacchia nel
1937 da una famiglia ebrea, il piccolo Stoppard viene cresciuto dal
1939 prima a Singapore e poi in India, dove studia in scuole inglesi e
in un contesto culturale prevalentemente britannico. I cechi sono
erroneamente considerati di cultura genericamente slava, avverte
Kundera, a causa della tarda dominazione (dovuta a un’invasione) russa.
Trovarsi sotto l’egida russa è stata una condizione tardo novecentesca
per molte nazioni che, piuttosto, possono essere accomunate
dall’afferenza al dominio asburgico. Essere ceco vuol dire essere
slavo, parlare slavo e pensare come quel mostro senza testa, pura
invenzione di un’Europa distratta, che è il “mondo slavo”. Ed essere
ceco vuol dire essere ai margini culturali dell’Europa, parte di un
“mondo lontano di cui non si sa nulla”. A proposito di Kafka Kundera
soggiunge: “Dato che per i francesi è cosa inusuale il distinguere tra
nazione e stato, li ho spesso sentiti definire Kafka uno scrittore
ceco. Naturalmente è una sciocchezza. Anche se dal 1918 è stato,
effettivamente, un cittadino della Cecoslovacchia, nazione di novella
costituzione, Kafka ha scritto solo in tedesco e si considerava uno
scrittore tedesco. Anche se un editore di Praga avesse pubblicato le
opere di un ipotetico Kafka ceco, nessuno dei suoi compatrioti (cioè a
dire nessun ceco) avrebbe avuto l’autorevolezza necessaria per far
conoscere al mondo quei testi stravaganti scritti nella lingua di una
‘nazione lontana’ di cui ‘non sappiamo niente’. No, credetemi, nessuno
conoscerebbe Kafka oggi – nessuno – se fosse stato ceco.”
Prima erano tende e distanze, folate di polvere gialla contro vetri
molati alla meglio e fuligine, lontananze di interi campi, da
percorrere
su carri o cavalli e l'incommensurabile distanza di ciò che è uguale e
invisibile. Dentro alle finestre degli altri c'era una vita
simile alla nostra, una famiglia con le stesse facce, lo stesso cibo,
le stesse spese ogni venerdì. Oggi ci pensiamo diversi e unici e
sentiamo che dietro ai vetri di una casa che non è la nostra ci sia un
mondo che non ci appartiene, una vita che non conosciamo, delle facce
che non potremmo immaginare solo pensandole.
E anche se è più facile guardarli, gli altri, attraverso le imposte che
rimangono zitte proprio davanti ai nostri muri, dietro i cortili, a
mezza scala tra l'interrato e i piani alti, quello che ci appare è un
mondo schiacciato, una prospettiva che non riesce ad aggiustarsi mai in
tre dimensioni. La distanza tra le paratie esterne e il muro con i
quadri e le lampadine è imponderabile, tutto è avvolto da un colore
rossastro che riempie lo spazio come un solido senza lati e le figure
che vi danzano dentro non sono che cartoline sullo sfondo di una
lanterna magica.
Di sopra, il cielo è più chiaro della notte e nasconde alle nostre attese la distanza fra noi e le stelle.
Forse l’ultimo ricordo che ho della mia casa è un giorno di sole
invernale con i rami bianchi come mani che giochino a pallate di neve e
le dita secche, dislocate verso il cielo piatto, un mare senza
orizzonti. L’ultimo e il primo, quello che compare subito nella mente
quando ci vogliamo raccontare ancora la storia della nostra casa.
Era un giorno invaso dal sole, giorno sotto zero che bisogna chiudersi
in macchina a motore spento, alzare gli schermi para-sole e socchiudere
gli occhi al bagliore delle grondaie dritte come spade abbandonate sui
tetti, la plastica ancora intorno alle giunture tutte spigoli, coperte
di ghiaccioli appuntiti come diamanti.
La casa accanto aveva il tetto coperto di foglie, un colore di composto
di terra che esalava odore pesante di marciume e rinascita. Lo sentivi
fino in fondo alla gola mentre giravi lo sguardo ancora alla tua casa,
con la cassetta delle lettere rossa che avevi comprato proprio solo
l’altroieri.
Lì seduta dentro l’abitacolo ricordavo bene quel pomeriggio in cui mi
proteggevo dalla pioggia sotto la pensilina e pensavo a quale altezza
attaccare i chiodini cromati ancora vergini e bianchi, al sicuro nella
bustina trasparente attaccata alla cassetta delle lettere da uno strato
trasparente di scotch. Le proporzioni e le distanze, questo mi
preoccupava. E poi la pendenza delle assi di legno orizzontali che
circondavano la casa e si interrompevano solo lì alla porta: potente
inarrestabile varco d’entrata nel mio futuro mondo.
L’atrio non era molto ampio, ma doveva servire a smistare le persone
che andavano al piano terra e le persone che avrebbero percorso la
rampa di dodici scalini fino alla porta di frassino chiaro del primo
piano. Al piano terra avrebbero abitato famiglie che immaginavo
composte da madri single con un paio di bambini in età pre-scolare o
forse una nonna e una madre in attesa del primo figlio e già certa
della solitudine che le stava davanti. Magari però sarebbe potuta
arrivare, bussando forte una sera in cui avrei deciso di cominciare ad
appendere le luci di natale, il grembiule annodato sulla schiena e il
profumo di biscotti mal riusciti che veniva dal forno, forse avrebbe
potuto bussare una famigliola di quattro persone, il padre senza
cappello, bagnato della prima neve che scendeva proprio allora e con in
braccio una bambina di tre anni addormentata, i capelli intrecciati da
un lato e ancora arruffati dall’altro, con la testa come dislocata
sulla spalla del padre che la teneva in braccio come se le sue
articolazioni non fossero state pensate per altro scopo che per tenere
una bambina in gonna a quadretti e giubbotto sintetico rosa e poi la
madre con un bambinello imbronciato per mano, tutto impiastrato di
cioccolato sulle guance e con gli occhi infossati rivolti alla macchina
che avevano lasciato sul ciglio della strada, una station wagon tutta
scura di roba ammonticchiata e con un pacco incartato alla meglio che
troneggiava sul portabagagli. E la madre che mi sorride con il suo
rossetto color mirtillo messo senza specchio e un segno a forma di V
sul collo fatto col pennarello rosa. E io avrei aperto la mia porta
alla famiglia piena di scatoloni, di pannolini e di pianti notturni,
portando biscotti caldi non proprio ben riusciti alla loro porta, tanto
per vedere i visi di quei bambini illuminarsi all’idea del profumo del
cioccolato caldo.
Dalla mia macchina posteggiata dall’altro lato della strada
quest’immagine sembrava vera, e viveva davanti ai miei occhi mentre in
mano stringevo la carta bollata con quelle poche parole che davanti a
quell’immagine non significavano niente e che mi negavano il diritto di
entrare, ora e per sempre, nella casa il cui numero civico avevo già
telegrafato alla mia famiglia, il cui colore, forma e le cui tubature
di rame avevo scelto tra mille altre mesi prima, quando ancora non
sapevo di poter sognare dei vicini di casa con figli e sogni tanto
simili ai miei.