La spiaggia di Larnaka. Il mare e il cielo verdi, torbidi di sabbia
densa come mattoni di fango, per costruire case di notte, all’ombra di
ciglia chiuse. Il cammino lento verso l’orizzonte e l’acqua sempre a
bagnare i rasoterra, ancora un passo e sfiora le gambe, poi torna
a sciacquare verde scura le caviglie, il dorso del piede. Non si arriva
da nessuna parte, il corpo non ha il brivido di quel freddo e
sconosciuto abbraccio che fa paura e accoglie mentre ti circonda. Solo
tiepido umidore e qualche timido pesce, piccolo per la pesca, grande
perché non si noti nei fondali. Si nutre forse di scorie morte della
nostra pelle, boccheggia semicosciente sguazzando veloce tra il peso
dei nostri passi e le polveri lasciate dalla pelle riarsa dal sole. Più
lontano qualche testa scura tra il flusso piatto e giganti a mezzobusto
accanto, incongruenze della prospettiva o sobbalzi del fondale. Tra
Morgante e Astarotte, aprendosi il varco a passo pesante, non resta che
trovare il proprio angolo di acqua e sdraiarsi galleggiando. Il corpo
galleggia, in perfetta linea orizzontale, immobili come cadaveri
trasportati dalla corrente, proviamo quella porzione di morte che ci
solleva dall’ansia di dover essere sempre, ostinatamente vivi.
Spruzzi d’acqua sulla fronte e sulla bocca interrompono il sogno di non
esistere e con gli occhi fuori fuoco guardo il gruppo di ragazzini che
ridono intorno a me. Due ragazzine sui dieci anni con i capelli scuri
troppo lunghi per la loro età e tre ragazzi tra i nove e i dodici anni
che entrano ed escono dalle onde in mutande bianche. Ci guardiamo.
“Io, Nefeli.” dico e sorrido e una bambina dice il suo nome pieno di
“a” ma non riesco ad afferrarlo. Anche l’altra corre a dire il suo e a
indicare due dei ragazzi cercando di spiegare un legame, di rivelare
un’unione tra loro che capisco essere di fratellanza.
“Sapete fare le capriole?”
Ridono e saltano scomposti nell’acqua.
Faccio una capriola. Poi indico la mia testa e mostro il fondo della sabbia. Testa – fondo di sabbia. Salto e curva del corpo.
Una delle ragazze, completamente vestita in maglietta a maniche lunghe
e pantaloni si butta e resta orizzontale sul pelo dell’acqua. A testa
in giù.
Dico no, non così.
L’avvicino, faccio segno di chiudersi il naso. Si arrende felice,
chiude le narici con indice e pollice e si arrende alle mie mani: una
sotto la sua pancia, una sulla sua schiena. Cerco di farla volteggiare
in acqua. Ha paura.
“Di quale terra siete, fratelli?” chiedo, spiegando, “Io, Italia.”
“Palestina” dicono in coro.
Voglio uscire dall’acqua, tornare alla mia sdraio tranquilla, lì in fondo al bagnasciuga.
Uno dei fratelli mi tocca e lo vedo fare capriole.
“Sì, sì,” dico, è così.
Provo con l’altra ragazza, dai capelli come canapa al sole. Più
remissiva, si lascia guidare sotto l’acqua, in quelle profondità da
gnomo.
“Quanti fratelli siete?” cerco di chiedere. Quattro. “E la mamma?” Mi
fanno il segno del pancione. Un quinto in arrivo. Guardo la spiaggia.
Nessun adulto a vederli nuotare, a osservare i loro movimenti.
Ancora qualche capriola. Schizzi e risate.
“Io torno in spiaggia.” Indico la mia sdraio. Le ragazze mi abbracciano
e mi seguono camminando nell’acqua bassa mentre mi allontano nuotando
tra il poco di onde e il mare di sabbia.
Mi siedo sulla sdraio. Penso: Palestina.
Loro mi salutano sbracciandosi per minuti interi dall’acqua e poi,
quando mi vesto per andare via, escono e vengono a baciarmi, uno ad
uno, lasciando l’impronta dei loro corpi curvi e sottili come
extraterrestri sui miei vestiti asciutti.