Forse l’ultimo ricordo che ho della mia casa è un giorno di sole
invernale con i rami bianchi come mani che giochino a pallate di neve e
le dita secche, dislocate verso il cielo piatto, un mare senza
orizzonti. L’ultimo e il primo, quello che compare subito nella mente
quando ci vogliamo raccontare ancora la storia della nostra casa.
Era un giorno invaso dal sole, giorno sotto zero che bisogna chiudersi
in macchina a motore spento, alzare gli schermi para-sole e socchiudere
gli occhi al bagliore delle grondaie dritte come spade abbandonate sui
tetti, la plastica ancora intorno alle giunture tutte spigoli, coperte
di ghiaccioli appuntiti come diamanti.
La casa accanto aveva il tetto coperto di foglie, un colore di composto
di terra che esalava odore pesante di marciume e rinascita. Lo sentivi
fino in fondo alla gola mentre giravi lo sguardo ancora alla tua casa,
con la cassetta delle lettere rossa che avevi comprato proprio solo
l’altroieri.
Lì seduta dentro l’abitacolo ricordavo bene quel pomeriggio in cui mi
proteggevo dalla pioggia sotto la pensilina e pensavo a quale altezza
attaccare i chiodini cromati ancora vergini e bianchi, al sicuro nella
bustina trasparente attaccata alla cassetta delle lettere da uno strato
trasparente di scotch. Le proporzioni e le distanze, questo mi
preoccupava. E poi la pendenza delle assi di legno orizzontali che
circondavano la casa e si interrompevano solo lì alla porta: potente
inarrestabile varco d’entrata nel mio futuro mondo.
L’atrio non era molto ampio, ma doveva servire a smistare le persone
che andavano al piano terra e le persone che avrebbero percorso la
rampa di dodici scalini fino alla porta di frassino chiaro del primo
piano. Al piano terra avrebbero abitato famiglie che immaginavo
composte da madri single con un paio di bambini in età pre-scolare o
forse una nonna e una madre in attesa del primo figlio e già certa
della solitudine che le stava davanti. Magari però sarebbe potuta
arrivare, bussando forte una sera in cui avrei deciso di cominciare ad
appendere le luci di natale, il grembiule annodato sulla schiena e il
profumo di biscotti mal riusciti che veniva dal forno, forse avrebbe
potuto bussare una famigliola di quattro persone, il padre senza
cappello, bagnato della prima neve che scendeva proprio allora e con in
braccio una bambina di tre anni addormentata, i capelli intrecciati da
un lato e ancora arruffati dall’altro, con la testa come dislocata
sulla spalla del padre che la teneva in braccio come se le sue
articolazioni non fossero state pensate per altro scopo che per tenere
una bambina in gonna a quadretti e giubbotto sintetico rosa e poi la
madre con un bambinello imbronciato per mano, tutto impiastrato di
cioccolato sulle guance e con gli occhi infossati rivolti alla macchina
che avevano lasciato sul ciglio della strada, una station wagon tutta
scura di roba ammonticchiata e con un pacco incartato alla meglio che
troneggiava sul portabagagli. E la madre che mi sorride con il suo
rossetto color mirtillo messo senza specchio e un segno a forma di V
sul collo fatto col pennarello rosa. E io avrei aperto la mia porta
alla famiglia piena di scatoloni, di pannolini e di pianti notturni,
portando biscotti caldi non proprio ben riusciti alla loro porta, tanto
per vedere i visi di quei bambini illuminarsi all’idea del profumo del
cioccolato caldo.
Dalla mia macchina posteggiata dall’altro lato della strada
quest’immagine sembrava vera, e viveva davanti ai miei occhi mentre in
mano stringevo la carta bollata con quelle poche parole che davanti a
quell’immagine non significavano niente e che mi negavano il diritto di
entrare, ora e per sempre, nella casa il cui numero civico avevo già
telegrafato alla mia famiglia, il cui colore, forma e le cui tubature
di rame avevo scelto tra mille altre mesi prima, quando ancora non
sapevo di poter sognare dei vicini di casa con figli e sogni tanto
simili ai miei.