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Stava iniziando la primavera, niente di meglio per sedersi al suo bar
preferito, accanto alla libreria che gli ricordava sempre la prima
volta che aveva visto Fahrenheit 451 di Truffaut. Era andato a vederlo
nel 1980 con una ragazza del suo corso all’università, Matilde. Lui
credeva di essere innamorato di lei e, peggio ancora, credeva che lei
fosse innamorata di lui. O insomma, così gli era parso. Era stata lei
del resto a chiedergli di andare al cinema e quando l’aveva vista, con
la gonna lunga e ampia, i capelli sciolti come una zingara aveva
pensato: è così allora che succede, è così che si riconosce che
piacciamo a qualcuno. Glielo vedeva addosso, nei vestiti, nei capelli,
nell’ombretto azzurro che aveva messo. Rimase poi perplesso quando non
gli permise di pagare il biglietto anche per lei e quando lo salutò
dandogli la mano, proprio davanti al portone. L’aveva riaccompagnata a
casa e a ogni passo si chiedeva se non avesse dovuto starle più vicino,
non so, sfiorarle il braccio accidentalmente. Lei parlava, parlava e
lui ascoltava meccanicamente, più interessato al suo tono di voce che
alle sue parole. Non ci aveva capito quasi niente del film, lui, perché
per tutta la proiezione aveva sbirciato il volto di lei contorcendo le
pupille fino a stare male. Non voleva farle notare che la stava
guardando e riusciva solo a intravedere il suo profilo illuminato dalle
luci nette, rosse e giallastre del film. La ragazza sullo schermo
recitava impassibile e sembrava la gemella di Matilde. Incomprensibile,
impenetrabile.
Dopo averla accompagnata a casa se ne andò un po’ in giro, ripensando
alla serata, chiedendosi se non avesse sbagliato qualcosa. Risentiva il
palmo della mano di lei nella sua quando si erano salutati e gli era
sembrato duro, piatto, senza quelle montagne e quelle vallate che tutti
hanno nelle proprie mani. Lei aveva velocemente ritirato la mano dalla
sua, senza lasciare che le loro dita si toccassero e sui polpastrelli
di lui era rimasta solo la sensazione del contatto col dorso duro e
ossuto della mano di lei, bianco e un po’ freddo.
Rimase a letto una settimana, si era preso l’influenza e quando tornò a
lezione la vide che rideva con un altro ragazzo e gli passava la mano
sulla guancia, in una lunghissima, interminabile carezza.
Istintivamente si toccò la guancia e dovette constatare che lui non
aveva il ricordo della mano di Matilde addosso. Qualcosa non era andata
per il verso giusto. Ma cosa?
Fu quella per lui la prima vera delusione d’amore e, sebbene lui non
fosse veramente innamorato di lei, la delusione stava nell’essersi
sbagliato, nell’aver immaginato che lei fosse innamorata di lui. Si
vergognava come un ladro a ripensarsi come un idiota che passa una
serata a scrutare il volto di una ragazza credendo che lei abbia dei
sentimenti per lui per poi scoprire che quell’impassibilità era invece
assenza d’amore. E si vergognava al ricordo dell’impercettibile
movimento che le sue dita avevano fatto quando si erano stretti la
mano, un movimento verso il braccio di lei, l’inizio del polso.
Probabilmente lei non se ne era nemmeno accorta, ma lui lo sapeva di
aver fatto quel gesto e ora se ne vergognava di fronte al tribunale
della sua intelligenza. Un idiota che non era in grado di decifrare i
segnali che le donne gli mandavano.
Dopo quella delusione ce ne furono altre perché man mano che cresceva
sembrava sempre più incapace di decifrare i sentimenti delle donne con
cui usciva e per questo si asteneva da averne lui stesso di sentimenti.
Era come se avesse bisogno di sapere che lo amassero per potersi
innamorare. E non gli sembrava mai che le donne lo amassero veramente.
Anche quelle che glielo avevano detto, anche quelle che avevano pianto
davanti a lui, tenendo gli occhi sgranati e rossi proprio a un palmo
dalla sua faccia, senza dire una parola.